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Le ultime parole di Tolstoj
"Alla fine dei suoi giorni, Tolstoj vide nella letteratura una maledizione e la rese il più ossessivo
oggetto del suo odio. Rinunciò allora a scrivere, perché disse che la scrittura era la massima responsabile del suo
fallimento morale. E una notte scrisse sul proprio diario l'ultima frase della sua vita, una frase che non riuscì a
terminare: 'Fais ce que dois, advienne que pourra' (Fai quello che devi, succeda quel che
succeda). |
Si tratta di un proverbio francese che a Tolstoj piaceva molto. La frase rimase così:
Fais ce que dois, adv. .
Nella fredda oscurità che precedette l'alba del 28 ottobre 1910, Tolstoj, che aveva ottantadue anni
e in quel momento era lo scrittore più famoso del mondo, uscì in segreto dalla sua ancestrale
residenza di Jasnaja Poljana e intraprese l'ultimo
viaggio. Aveva rinunciato per sempre alla scrittura e, con lo strano gesto della sua fuga,
preannunciava la coscienza moderna secondo cui tutta la letteratura è la negazione di se stessa.
Dieci giorni dopo la sua scomparsa, morì nella casa di legno del direttore della stazione
ferroviaria di Astapovo, un villaggio di cui pochi russi avevano sentito parlare. La sua fuga aveva
avuto un brusco finale in quel luogo triste e remoto, dove lo avevano obbligato a scendere da un
treno diretto al Sud.
L'esposizione al freddo nei vagoni di terza classe del treno, senza riscaldamento, pieni di fumo e
correnti d'aria, gli aveva provocato una polmonite.
Dietro di lui rimaneva la sua casa di famiglia abbandonata, e sul suo diario - anch'esso
abbandonato dopo sessanta-tré anni di fedeltà - l'ultima frase della sua vita, la frase interrotta,
persa nel suo deliquio bartleby:
Fais ce que dois, adv... Molti anni dopo Beckett dirà che persino le parole ci abbandonano e che con questo si è detto
tutto."
Enrique Vila-Matas, Bartleby e compagnia. Feltrinelli, Milano 2002, pp. 179-180
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