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Marianne Jung (1784-1860)
"Goethe conosce Marianne e Marianne, nel Divano, diviene Suleika. Così nasce una poesia amorosa fra le più grandi di tutti i tempi, ma nasce anche qualcosa di ancor più grande. Il Divano, e l’altissimo dialogo amoroso che esso comprende, reca il nome di Goethe. Ma Marianne non è solo la donna amata e cantata nella poesia; è anche l’autrice di alcune liriche fra le più alte, in senso assoluto, di tutto il Divano. Goethe le integrò e le pubblicò nella raccolta, con il suo nome; appena nel 1869, tanti anni dopo la morte del poeta e nove dopo
la morte di Suleika, il filologo Hermann Grimm, cui Marianne aveva confidato il segreto e mostrato il carteggio con Goethe, da lei custodito in fedele segretezza, rese noto che la donna aveva scritto quelle pochissime ma altissime liriche del Divano.
Musicate da Schubert, quelle poesie avevano fatto il giro del mondo sotto il nome di Goethe e continuano a farlo, a recare quel nome nei libri e anche nella memoria di chi ama quei Lieder e deve, ogni volta, leggere le note di Erich Trunz nella sua edizione critica delle opere goethiane per sapere quali sono i versi scritti dal Consigliere Segreto e quali sono invece i versi scritti dalla piccola ballerina che usciva dall’uovo vestita da Arlecchino ed era costata al suo banchiere duecento fiorini. Non è solo il mimetismo che colpisce, quell’unione di voci che si fondono fra loro nel dialogo appassionato, come i corpi nell’amore o come i sentimenti e i valori in un’esistenza condivisa. Vi è certo anche prevaricazione maschile, un caso tipico e quasi estremo di appropriazione, da parte dell’uomo, dell’opera della donna; il lavoro che reca il nome di un uomo è spesso, come in questo caso il libro di Goethe, anche espropriazione del lavoro femminile. C’è tuttavia qualcosa d’altro. Marianne ha scritto, nel Divano, pochissime poesie, che appartengono ai capolavori della lirica mondiale, e poi non ha scritto più nulla, mai più. Quando si leggono le sue odi al vento dell’Est e dell’Ovest, un canto d’amore che diviene il respiro stesso dell’esistenza, sembra impossibile che Marianne non abbia scritto niente altro. Come la piccola favola sulla rosa morente della scolara di prima elementare, anche le liriche di Marianne testimoniano la sovrapersonalità della poesia, la misteriosa congiunzione e coincidenza di elementi che la produce, come un certo grado di condensazione del vapore acqueo, provocato da una combinazione casuale – o comunque difficilmente prevedibile – di certi fattori, produce la pioggia, un incremento della vendita di ombrelli e un’insufficiente offerta di taxi rispetto alla domanda.
Anche per la creazione dei suoi capolavori, Marianne, nata in Austria, avrebbe potuto ripetere il detto austriaco caro a Musil, es ist passiert, è capitato così, un contatto improvvisamente perfetto tra l’anima e il mondo, una mano che scrive parole come un’altra disegna distrattamente sulla sabbia o su un foglio di carta, senza voler brevettare o garantirsi la proprietà esclusiva di quello schizzo. Marianne lasciò che quelle liriche portassero il nome di Goethe; nella sua dedizione sapeva bene quanto è vano distinguere il mio e il tuo nell’unione amorosa. Ma quelle sue liriche apparse sotto il nome di un altro dicono anche la vanità di ogni nome posto in calce a una pagina o sulla copertina di un libro di poesia, perché quest’ultima, come l’aria e le stagioni, non appartiene a nessuno, neanche a chi la scrive.
Forse Marianne Willemer sentì che la poesia aveva senso soltanto se 119scaturiva da un’esperienza totale come quella che aveva vissuto e che, passato quel momento di grazia, era passata anche la poesia. «Una volta nella mia vita», disse molti anni più tardi, «mi accorsi di sentire qualcosa di nobile, d’essere capace di dire cose che erano dolci e sentite con il cuore, ma il tempo le ha non tanto distrutte, quanto cancellate». Era ingiusta con se stessa, perché la consapevolezza e lo stile con i quali lei viveva lo svanire di quella pienezza e l’inaridimento di quella nobiltà erano a loro volta una grande nobiltà d’animo e intensità di sentire, erano una poesia non minore di quella vissuta nei lontani mesi della passione. Marianne era stata tanto più grande e magnanima di Goethe, che l’aveva archiviata e passata agli atti, con quella sua strategia sfuggente che univa la brutalità della salute e i timori dell’insicurezza; anche Willemer, sempre affettuoso e rispettoso, si era comportato più generosamente del poeta.
Certamente Marianne, anche senza l’accensione di quel 1814-15, avrebbe potuto, con la sua intelligenza e con la fine cultura letteraria che aveva acquisito, scrivere volumi di bei versi, degni di figurare in una storia della letteratura. Ogni frequentatore della società letteraria può essere un decoroso autore e infatti spesso lo è realmente; i libri veramente brutti sono rari e un clamoroso fallimento letterario è un caso anomalo rispetto alla media acculturazione stilistica, come lo è un vistoso errore d’ortografia rispetto alla diffusa alfabetizzazione. Anche Marianne Willemer avrebbe certo potuto produrre cinque o dieci di quei libri in versi e in prosa, che una letteratura e un paese producono a migliaia, col ritmo automatico e regolare di una secrezione fisiologica.
Preferì tacere. I suoi pochi versi sono fra i più grandi della lirica mondiale, ma ciò non è sufficiente a far entrare Marianne Willemer nella storia della letteratura nonostante i saggi scritti da acuti studiosi. La letteratura è un sistema di manutenzione; non le bastano alcune righe assolute, ma ha bisogno di un ingranaggio produttivo, non importa se di pagine geniali o banali, per costruire su di esso la sua catena di distribuzione, il ciclo delle edizioni, recensioni, tesi di laurea, dibattiti, premi, manuali scolastici, conferenze. Con i versi di Marianne Willemer non si può fare, in questo meccanismo, proprio niente. E così Marianne, che ha scritto alcune fra le più grandi poesie del Divano, resta nella storia della letteratura come una donna amata e cantata da Goethe e non viene iscritta all’albo dei poeti.
Claudio Magris, Danubio. Garzanti, Milano 1986, pp. 117-120
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